E' estorsione minacciare di continuo il licenziamento e imporre condizioni di lavoro illegali

20 maggio 2016

Integra il reato di estorsione anche la condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie a legge ponendolo nell'alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato.

di Alessio Scarcella - Consigliere della Corte Suprema di Cassazione
La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi nella sentenza in esame sulla questione della rilevanza penale di quelle condotte che si sostanziano in atteggiamenti prevaricatori e minatori del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti che vanno oltre la possibile configurabilità di un mobbing lavorativo, integrando veri e propri estremi di reato. La Cassazione -nel rigettare la tesi della difesa dell'imputato secondo cui non poteva ritenersi sussistere il reato di estorsione ai danni dei propri dipendenti, in quanto, ancor prima dell'instaurazione del rapporto di lavoro, tutti i dipendenti erano stati resi edotti delle condizioni, degli orari, delle retribuzioni e dei turni di lavoro, che i lavoratori avevano liberamente accettato- ha affermato che un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell'accettazione da parte di quest'ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sè, la sussistenza dei presupposti dell'estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo, può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perché è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera.

Il fatto

La vicenda processuale segue alla sentenza d'appello con cui era stata confermata la sentenza del primo giudice di condanna nei confronti di un soggetto, avente in gestione un bar, ritenuto colpevole del reato di estorsione continuata perché, agendo nella sua qualità di datore di lavoro e con abuso di tale qualità, mediante minaccia di licenziamento, costringeva i dipendenti, prima, ad accettare le condizioni lavorative loro imposte e a firmare una lettera di dimissioni in bianco, poi, a svolgere di fatto attività lavorativa quotidiana e a tempo pieno, pur risultando gli stessi assunti con un contratto a tempo parziale, e a non fruire di ferie, contributi e TFR, costringendoli altresì ad accettare un compenso inferiore a quello che avrebbe dovuto essere loro erogato.

Il ricorso

Avverso la sentenza proponeva, per quanto qui di interesse, ricorso per cassazione l'imputato, in particolare sostenendo che non poteva ritenersi sussistere il reato di estorsione ai danni dei propri dipendenti, in quanto, ancor prima dell'instaurazione del rapporto di lavoro, tutti i dipendenti erano stati resi edotti delle condizioni, degli orari, delle retribuzioni e dei turni di lavoro, che i lavoratori avevano liberamente accettato.

La decisione della Cassazione

La Corte, nel respingere il ricorso, ha affermato il principio di cui in massima, così ribadendo la sua giurisprudenza secondo cui, quand'anche si ritenesse provata l'accettazione, da parte dei lavoratori, di una retribuzione inferiore a quella risultante in busta paga e che la stessa non basti, di per sè sola, a dare prova di una subita coercizione, non è tuttavia la forma della "libera" pattuizione a trasformare un semplice illecito civile nel reato di estorsione, bensì la modalità, resa chiara fin dall'assunzione e ribadita in costanza di rapporto, di concreta attuazione, mese dopo mese, della pretesa "libera" pattuizione.

Al fine di meglio comprendere la decisione della Cassazione è utile un breve approfondimento giuridico, necessario per inquadrare la questione.

Ed invero, l'art. 629 c.p., sotto la rubrica «Estorsione» punisce con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000 la condotta di "Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno"; la pena, aggiunge la norma, è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 5.000 a euro 15.000, "se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente". Si tratta, in particolare, delle seguenti ipotesi, richiamate a proposito del reato di rapina: 1) se la violenza o minaccia è commessa con armi o da persona travisata, o da più persone riunite; 2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire; 3) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis c.p.; 3-bis) se il fatto è commesso nei luoghi di cui all'art. 624-bis c.p. o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa; 3-ter) se il fatto è commesso all'interno di mezzi di pubblico trasporto; 3-quater) se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell'atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro; 3-quinquies) se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne.

In particolare, in materia di estorsione "contrattuale", è stato affermato che la minaccia, ancorché non penalmente apprezzabile quando è legittima e tende a realizzare un diritto riconosciuto e tutelato dall'ordinamento giuridico, diviene contra ius quando, pur non essendo antigiuridico il male prospettato, si faccia uso di mezzi giuridici per scopi diversi da quelli per i quali sono stati apprestati dalla legge. Con particolare riferimento al rapporto datore di lavoro-lavoratori, la Cassazione ha assunto posizione alquanto rigide e che vanno salutate con particolare favore. Segnatamente, si ritiene, ad esempio, che integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, in presenza di una legittima aspettativa di assunzione, costringa l'aspirante lavoratore ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi: nella specie la Corte ha ravvisato gli estremi del tentativo di estorsione nella pretesa del datore di lavoro di imporre ad aspiranti lavoratrici, già selezionate in base ai titoli abilitativi posseduti, di rinunziare a una parte della retribuzione, ancorché figurante in busta paga (Cass., Sez. II, 20 aprile 2010). Ancora, per quanto qui di interesse, si ritiene integrare il delitto la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate e, più in generale, condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi (Cass., Sez. II, 14 dicembre 2010, n. 1284; nello stesso senso Cass., Sez. II, 10 ottobre 2014, n. 677; Cass., Sez. II, 27 novembre 2013, n. 50074; Cass., Sez. II, 20 dicembre 2011, n. 4290; Cass., Sez. II, 1 dicembre 2011, n. 46678).

Tanto premesso, nel caso in esame, viene tracciato dalla sentenza un quadro globale di timore dei dipendenti, in ragione della particolare situazione del mercato del lavoro (in cui l'offerta superava di gran lunga la domanda) e in presenza di comportamenti certamente prevaricatori del datore di lavoro, sì da rendere evidente che, anche nel caso in cui sin dal momento di instaurazione del rapporto il lavoratore avesse "accettato" di non rivendicare i propri diritti, siffatta accettazione non era libera, ma condizionata.

Facendo quindi applicazione della richiamata giurisprudenza, dunque, essendo i comportamenti prevaricatori del datore di lavoro avvenuti in spregio dei diritti dei lavoratori, era evidente, da un lato, che l'imputato si era costantemente avvalso della situazione del mercato del lavoro ad esso particolarmente favorevole e, dall'altro che il potere di autodeterminazione dei lavoratori era stato compromesso dalla minaccia larvata, ma non per questo meno grave e immanente, di avvalersi di siffatta situazione.

Da, quindi, dunque, la configurabilità del reato di estorsione e il rigetto del ricorso.
Cass. Pen., Sez. II, 5 maggio 2016, n. 18727

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